mercoledì 18 aprile 2012

Biancaneve

Tarsem Singh

Inizia in chiave di pre-cinema l'intelligente “Biancaneve” di Tarsem Singh: poiché la Regina malvagia - che fa da narratrice del “C'era una volta” di apertura! - illustra il suo racconto mettendo in moto una “macchina per le immagini” che è parente stretta (è la versione magica) degli aggeggi ingegnosi del pre-cinema, in particolare qui lo zootropio. Il che naturalmente non è gratuito: indica apertamente quel piglio metalinguistico e metanarrativo che fa spiritosamente da filo rosso al film di Tarsem.
Il fatto poi che sia la Regina (Julia Roberts) a narrare l'inizio della storia le consente tutto il sarcasmo che ci si può aspettare – però il visuale smentisce il sonoro in una graziosa dissociazione: lei ha un bel parlare di sé in modo elogiativo e apologetico, tuttavia il visuale la presenta come un'ombra minacciosa.
Il problema che si pongono Tarsem e gli sceneggiatori Jason Keller e Melisa Wallack è di riscrivere in modo moderno la fiaba – la cui versione canonica è ormai il capolavoro di Walt Disney (1937), che il film tiene presente più di quanto sembri - senza volerla rovesciare completamente. C'è naturalmente un'ironia di fondo sui personaggi. Biancaneve (Lily Collins), prima un'insicura, con un corso accelerato dei nani diventa una specie di eroina kung fu; il Principe, interpretato con humour da Armie Hammer, è un cretino; i nani sono dei banditi, e di questo mestiere dicono (ombra di Walt Disney!) “sempre meglio che in miniera”. Quanto alla Regina, personaggio super-camp per definizione, Julia Roberts non si lascia sfuggire alcuna occasione. La pagina della sua cura di bellezza è da antologia. Nota poi che il principe e Biancaneve quando sorridono hanno diritto a un riflesso sfavillante sui denti! Ma è molto più importante l'intervento sulla struttura della storia. Giacché i punti caratterizzanti del racconto sono già presenti nella nostra cultura, il film anziché illustrarli ne svicola: o li anticipa o li rovescia. Per esempio, lo Specchio dice alla Regina “In un giorno non lontano mi chiederai chi è la più bella del reame, e la risposta non ti piacerà” - e questo è quanto per la famosa domanda che è la pietra angolare della fiaba. Il “bacio del vero amore” per spezzare l'incantesimo non lo dà il principe a Biancaneve ma Biancaneve al principe (che, con gustosa invenzione, un filtro ha trasformato - mentalmente - in un cucciolo). E la vecchiaccia con la classica mela rossa? Spunta nel finale - ma anche qui rovesciata.
Certamente Tarsem & C. potevano fare di più; per esempio i sette nani non hanno – nonostante lo sforzo evidente – una forte caratterizzazione. Siamo lontani dalla genialità disneyana. Tuttavia, Tarsem Singh proviene in origine dal videoclip e dalla pubblicità, “forme brevi” basate sul potenziamento estetico dell'immagine; e bisogna riconoscergli una sua forza visionaria. Come scenografia, il mondo in CGI di Biancaneve sembra davvero una moderna illustrazione di fairy tale. Notevoli i mostri-burattino e la Bestia (ispirata, si direbbe, al Jabberwock di Lewis Carroll); bellissimi i costumi di Eiko Ishioka (“Dracula di Bram Stoker”), alla quale il film è dedicato in loving memory, e che qui disegna una specie di Settecento psichedelico. Questi costumi nutrono l'astrazione della messa in scena – si guardi per esempio la partita a scacchi viventi della Regina. “Biancaneve” si svolge in un paesaggio invernale, che rispecchia simbolicamente la situazione del regno bloccato nella tirannia e insieme di Biancaneve stessa, inizialmente incapace di uno sviluppo volitivo. La cosa interessante è che gli esterni e gli interni condividono la stessa apparenza di set: tutto appare finto, tutto set appunto (il che ricorda peraltro certi aspetti del primo cinema muto, alla Maurice Tourneur di “The Blue Bird”); e questo è proprio il cinema contemporaneo, sempre più grafica e meno fotografia.
Qua e là si vede qualche riflesso del cinema est-asiatico, che è il vero faro del cinema d'oggi – ma Tarsem Singh non dimentica le sue origini indiane, e con la canzone finale regala uno squarcio musicale d'addio che non è né musicalità disneyana né musical americano classico: è vera Bollywood.

domenica 1 aprile 2012

L'altra faccia del diavolo

William Brent Bell

Sarà per l'ambientazione romana, ma l'horror “L'altra faccia del diavolo”, di William Brent Bell, ricorda alquanto il passabile “Il rito” (di Michael Hafström, con Anthony Hopkins). Si apre con un filmato, piuttosto ben realizzato, sulla scena di un massacro, nel lontano 1989. La protagonista del film è la figlia della donna che commise quegli omicidi perché posseduta dal demonio, e che ora vegeta in un ospedale psichiatrico di Roma, legato al Vaticano, dov'è stata misteriosamente trasferita dall'America. Ormai cresciuta, Isabella (Fernanda Andrade) vorrebbe realizzare un documentario su quei fatti, e quindi va a Roma per vedere la madre, continuamente seguita e filmata dal suo collaboratore Michael.
Il film quindi è realizzato in quella forma pseudo-documentaria per cui si va affermando la definizione di found footage movies (filmati ritrovati). Proporrei piuttosto, e qui l'adotterò, la definizione REC – che permette anche il richiamo a uno dei migliori film del genere, benché successivo al capolavoro di Mirick e Sanchez “The Blair Witch Project” (per non parlare di “Cannibal Holocaust”...). Infatti non è affatto detto che nei film di questo genere il footage sia perduto e poi found, anche se è la soluzione narrativa principe. Può benissimo essere realizzato - nella finzione, ovviamente - a scopo documentaristico o di studio, come qui. In questo si congiunge col mockumentary - con la differenza che il mockumentary ha per definizione la forma del prodotto completato, del documentario terminato e proposto al pubblico: ciò comporta la possibilità evidente che la narrazione sia ingannevole, mentre la forma REC possiede delle marche di verità, o per dire meglio di documento, “brute” e dirette. Si ricorda anche un caso particolarmente barocco nell'interessante e sottovalutato “Il quarto tipo” di Olatunde Osunsanmi (yes!), in cui vedevamo il materiale (pseudo) documentaristico replicato in forma di fiction, con compresenza dei due livelli sullo schermo in un autentico caso di split screen narrativo.
Il modesto “L'altra faccia del diavolo” è normale amministrazione sulla possessione demoniaca, che qui appare particolarmente contagiosa, mentre la Chiesa e la psichiatria, unite, ne negano l'evidenza (un caso divertente è che lo psichiatra si chiama Antonio Costa, come uno dei massimi critici e storici del cinema italiani). Niente di rilevante, nel film; ma in verità non è spiacevole alla visione. Il suo aspetto migliore è una discreta costruzione dell'atmosfera, che indovina qualche buon tocco (una suora cieca incrociata per strada per un attimo ha un volto così efficace che è stata messa, alquanto ingannevolmente, anche sul poster del film). La forma “documentaristica” e il budget limitato cospirano per far sì che vengano evitate le forme più fantastiche del sottogenere esorcistico, levitazioni, trasformazioni mostruose ecc., rese familiari da “L'esorcista” di William Friedkin; e questo dà al film una certa aria di realtà. La favorisce anche una buona interpretazione, sobria e quindi inquietante, di Suzan Crowley nel ruolo della madre.
Peccato che questa impressione di realtà sia messa a dura prova proprio dalla forma pseudo-documentaria. Per definizione, nei film REC la presenza della macchina da presa viene diegetizzata – i.e., inserita nel racconto. La protagonista e i due preti suoi compagni sono continuamente accompagnati dalla telecamera di Michael. Ora, guardiamo la scena in cui Isabella incontra per la prima volta sua madre in manicomio: è una scena assolutamente a due: la madre possiede una conoscenza preternaturale dei fatti (l'aborto di Isabella) ma sembra non accorgersi della presenza di un terzo incomodo che filma. Neanche quando un primissimo piano implicherebbe un avvicinamento della mdp (poi la scena è anche montata, ma lasciamo perdere). Ma c'è di peggio. I due preti compiono esorcismi senza l'autorizzazione della Chiesa (contestano come ipocrisia la sua prudenza in questi casi) e sono legittimamente spaventati all'idea che ciò venga a conoscenza delle gerarchie ecclesiastiche. Ebbene, mentre fanno un esorcismo a una ragazza, e mentre complottano per farne uno alla madre di Isabella, si lasciano filmare da Michael!
In breve, per poter mantenere la forma REC la sceneggiatura è costretta a spostarsi sul piano di una totale illogicità. Vale la pena di notare, tuttavia, che questa illogicità non affonda la finzione cinematografica come se, diciamo, per sbaglio fossero inquadrati i riflettori o i microfoni, o il montatore avesse lasciato dentro i ciak. Evidentemente la convenzione narrativa è più forte del carattere evidentemente traballante (cioè non sempre mantenuto) del presupposto. Il che ci consente di dire che – dopo la sorpresa delle prime volte – ormai nel cinema la modalità REC è diventata un semplice stile di presentazione: in altri termini, è passata dal dominio della narrativa a quello della retorica.