lunedì 22 agosto 2011

Conan the Barbarian

Marcus Nispel

“Io sono sempre grande”, dice Norma Desmond, ex diva del muto, in “Viale del tramonto” di Wilder, “è il cinema che è diventato piccolo”. Ed era il 1950! Senza voler cadere nel conservatorismo moralistico che è diventato il cavallo di battaglia degli ignoranti (quando leggi certe “recensioni” sul web ti cascano i denti), credo sia innegabile che il cinema di oggi è più piccolo di quello, diciamo, di soli trent'anni fa. Ce lo ricordano in particolare i remake – come “Conan the Barbarian” di Marcus Nispel.
Ora, quest'esordio sembrerebbe preludere a una stroncatura in piena regola. Invece no: “Conan the Barbarian” si lascia vedere. La prima parte non è priva di vigore (mentre la seconda è l'usual fare del fantasy avventuroso). Però senza dubbio non c'è ombra della grandezza del capolavoro di John Milius del 1982, né della sua sterminata fantasia cinematografica. Che non era vero citazionismo (Milius detestava il milieu degli studenti di cinema), bensì un incrocio di amore, gusto della forza intrinseca dell'immagine e tecnica artigianale di appropriazione: se Ejzenštejn ha reso un attacco di cavalieri in modo superlativo, perché non riadoperarlo?
Ecco, i cavalieri all'attacco vengono giusto in taglio: nella scena analoga del nuovo “Conan” manca del tutto l'aspetto ejzenštejniano; c'è solo il facile gusto della moltiplicazione in CGI. Il film ha comunque una discreta spettacolarità d'inquadratura, un certo ritmo, e se non altro non è edulcorato. E' molto apprezzabile la sua franca crudeltà. Se un nemico al galoppo viene sbalzato contro un masso, ci lascia una macchia di sangue grande quanto la sua schiena. Conan ragazzino finisce i selvaggi feriti e porta le loro teste al villaggio come trofeo. Adulto, quando interroga l'uomo al quale molti anni prima ha tagliato il naso, non si perita di ficcargli le dita dentro la mutilazione (Conan evidentemente non è schizzinoso) per incoraggiarlo a parlare. Il suo imbroglio, poi, circa la promessa al senzanaso di risparmiargli la vita denota un certo barbarico sense of humour – al pari del “Buon viaggio!” rivolto a un altro cialtrone prima di farlo volare con una catapulta.
Mentre la caratterizzazione dei nemici è solo funzionale, la strega interpretata con gusto da Rose McGowan è una discreta figura. Alquanto deludente è lo scontro finale: il film ha bruciato le migliori cartucce prima, e l'idea della grande ruota che si rivolge su se stessa è meno efficace di quanto potesse parere sulla carta. Il peggior difetto del film è il montaggio incapace di Ken Blackwell, che già aveva fatto quel che poteva per rovinare “I mercenari”. Qui, peggio ancora, l'azione è spesso confusa (vedi per esempio il combattimento contro i tentacoli che escono dall'acqua) senza neppure attingere minimamente quell'effetto da videoclip che vorrebbe.
Jason Momoa è un ex modello hawaiano, apparso anche in “Baywatch”. Mentre Arnold Schwarzenegger, ben guidato da Milius, aveva trasformato la sua fissità in solennità eroica, Momoa prova a recitare. Certo, non esce dalla categoria del belloccio palestrato, ma bisogna ammettere che avrebbe potuto anche esser peggio (ombra di Kirk Morris!). Se il protagonista non è certo il Conan di Milius, tanto meno è quello di Robert E. Howard; ne permane qualche traccia qua e là. Dibattito con la ragazza se nelle azioni umane vi sia uno scopo deciso dagli dei o solo caos: “Non lo so e non me ne importa. Io vivo, amo, uccido – e sono contento”; e questo è howardiano. Anche il machismo di Conan (“Sta zitta e fa quello che ti dico”) è riposante, nell'era del politically correct. “Nessuno deve vivere in catene!”, intona Conan prima di attaccare i mercanti di schiavi – e libera una banda di bellezze a seno nudo che poi giustamente si porta dietro. Vedete: la virtù trova in se stessa la propria ricompensa.
Insomma, “Conan the Barbarian” non è il peggior film della stagione. Se poi uno riuscisse a dimenticare Milius... no, no, cancella. Il cinema è diventato più piccolo.


lunedì 15 agosto 2011

Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma

Tsui Hark

Produzione cinese diretta dal maestro di Hong Kong Tsui Hark, “Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma” è un magnifico wuxiapian (film storico con duelli e arti marziali) dove, con l'estremismo che lo caratterizza, Tsui Hark inscrive una riflessione appassionata in forme di vera esaltazione narrativa e visuale. A tal punto abbacinante, che qualcosa rischia di restare non colto: perché Tsui Hark e lo sceneggiatore Zhang Jialu, mentre portano sullo schermo la grandezza e il delirio di un cinema estremo, contemporaneamente tengono dell'altro sottotraccia.
Mentre si sta completando la costruzione di una statua del Buddha alta 220 metri, che svetterà sulla capitale, due dignitari governativi muoiono misteriosamente per autocombustione. Per sciogliere l'enigma l'imperatrice vedova Wu - che sta per essere incoronata come primo Imperatore donna della storia cinese - fa uscire di prigione il magistrato Dee, grande investigatore, condannato otto anni prima perché suo avversario politico. Il divo hongkonghese Andy Lau porta al personaggio di Dee una bella gamma interpretativa: ora la furia fredda del combattente, ora il lampo dell'intuizione negli occhi, ora il dolore intimo di fronte all'onnipresenza del male, ora uno sguardo ironico da gatto.
Tsui Hark cerca la forma perfetta in una messa in scena di febbrile bellezza, che si esprime nei superbi tableaux di massa, composizioni coloristiche attorno a un colore guida; nei combattimenti, orchestrati da Sammo Hung (qui action director) con la sua usuale freschezza, eleganza, uso funambolico di spazi e oggetti; nelle possenti concezioni scenografiche in CGI. Come un Doré o un Piranesi cinese, Tsui Hark concretizza sullo schermo una concezione grafica epica e allucinata in cui gli spazi scenografici diventano unità narrative, che scandiscono in capitoli il film. E' un viaggio in sequenze di pura follia: basta citare l'apertura fantasy/horror all'interno della colossale statua cava o quell'aberrante mondo sotterraneo sull'acqua, popolato di mostri e reietti, che è il Bazar Fantasma - o anche (sebbene questo sia un luogo comune dei wuxiapian) le visioni psichedeliche del combattimento sotto l'effetto della droga al Monastero.
Il film alterna momenti solenni a fratture convulse; delirio e pazzia inseguono il protagonista Dee nella sua ricerca. La residenza, oasi di pace dopo la prigione, con l'eleganza sognante del corteo di donne che portano grandi lanterne nel parco, esiste solo per essere violata da una pioggia di frecce di ferro irrealmente fitta. Oppure il luogo della compostezza rituale che è la corte imperiale. Ritorna spesso nel film la voce over (o “impossibile”: il cervo parlante) che scandisce editti imperiali la cui monosillabica solennità staccata (nell'originale cinese) rispecchia la rigidità formale del Palazzo. Eppure anche questa rigidità verrà turbata (un solenne movimento di macchina accompagna la corsa dell'imperatrice e delle ancelle verso la donna morente); anche lì si scatenerà il disastro, con un ruolo blasfemo per la statua gigantesca del Buddha – il portatore della pace interiore per antonomasia.
Il film si apre portandoci dentro la ciclopica statua in costruzione, che al suo interno è una macchina. Inevitabile porre un parallelo fra la macchina dell'eccesso che è il Buddha gigante e la macchina dell'eccesso che è il film. Entrambi sono costruiti come meraviglia visuale spinta all'estremo, entrambi sono destinati all'apocalisse. Il set implica la propria distruzione: “Detective Dee” appartiene a quella categoria di cui parlava Enzo Ungari ne L'immagine del disastro, il cinema della catastrofe.
Un plot complesso ma non difficile da seguire intreccia il dramma storico, il cinema di arti marziali, la detective story in costume, il fantasy magico, nonché il mélo di una storia d'amore solo sussurrata. Né mancano accenni di commedia (vedi il litigio, mix di erotismo e kung fu, fra Dee e l'eroina combattente Jing'er). Uno humour bizzarro attraversa il film, non dialogando con la trama drammatica, come in genere avviene, bensì nascosto sotto lo svolgimento.
Sviluppandosi, “Detective Dee” si allarga a una riflessione allegorica sugli arcana imperii: veste di sontuose immagini avventurose una meditazione sul potere. Vibrazioni shakespeariane puntualmente registrate nella potente interpretazione di Carina Lau nel ruolo dell'Imperatrice Wu, figura drammatica che intesse i suoi dolorosi giochi di potere sacrificando tutto alla sua determinazione. “Per raggiungere la grandezza, chiunque è sacrificabile”, dice l'imperatrice (uso le parole della versione originale sottotitolata, più convincente della vacua traduzione italiana); queste parole ritornano ossessivamente nel film. Non meno drammatica è la figura della sua favorita Jing'er (Li Bingbing), la donna guerriero, l'arma che non vuole continuare ad essere un'arma (il sentimento in contrasto con le obbligazioni è uno dei concetti base dei wuxiapian).
Di qui, il film si allarga ad avvolgere i grandi temi tragici. Qual è il prezzo del potere? Come si può rapportare la giustizia alle necessità dello Stato? E' possibile l'amore in questa prigione di costrizioni che è la vita? Fino a dilatarsi nella grande angosciata domanda che le comprende tutte: esiste per l'uomo puro la possibilità di muoversi nel mondo? Questo è il dramma del magistrato Dee, anticipato in un dialogo fra prigionieri, ma sempre presente in filigrana. “Il Cielo e la Terra non hanno posto per me, ma il mio cuore è in pace” sono le parole finali.

domenica 7 agosto 2011

Vanishing on 7th Street

Brad Anderson

Fogli di giornale che rotolano tristemente nelle strade della metropoli vuota - la gente è scomparsa. Quante volte abbiamo visto questa scena nel cinema americano? Possono essere la guerra atomica, le epidemie, gli zombi, i rapimenti alieni. E' un terrore sempre presente nella cultura americana (romanzi o fumetti, cinema o tv): le metropoli deserte, gusci vuoti, con file di auto abbandonate lungo i marciapiedi. L'American way of life senza più Americans. La macchina tecnologica abbandonata senza più nessuno per usufruirne.
Una variante di questa ossessione è l'interessante “Vanishing on 7th Street” di Brad Anderson, in cui la gente di Detroit (o del mondo?) è letteralmente stata divorata dal nero dell'ombra, che si sparge dove non c'è luce (intanto il giorno diventa misteriosamente sempre più corto) e quando avviluppa gli uomini li fa sparire, lasciando solo i vestiti.
Quindi tutto si gioca sull'opposizione luce/buio. Un pugno di superstiti combatte contro quest'ombra divoratrice a colpi di fonti luminose. Ma la tecnologia tradisce. Le pile elettriche vacillano e si spengono; il generatore elettrico perde colpi; e le armi da fuoco, impotenti contro l'ombra, qui servono solo a rischiare di ammazzarsi l'un l'altro sparando per sbaglio.
Sebbene la sceneggiatura sia tutt'altro che perfetta, il film ha la sua attrattiva. Il nero che è come una marea di inchiostro senziente si dilata a coprire le case e le strade, assedia le fiammelle che lo tengono precariamente a bada, insegue con ferocia le sue vittime; e questo è già inquietante. Ma avanguardia del nero sono autentiche ombre umane sussurranti; e questo è pauroso.
In un film in cui l'unico rimedio per i pochi personaggi è stare nella luce, è evidente l'addentellato religioso; ma la difesa non è automatica come nei vecchi film di vampiri; in una bella scena, l'oscurità penetra in una chiesa e copre le immagini di Cristo e dei santi. Tuttavia (attenzione, spoiler!) nel cuore della chiesa c'è la salvezza; e la conclusione rimanda chiaramente al mito di Adamo ed Eva.
Quanto detto rientra nel bilancio all'attivo del film. La parte negativa, come già accennato, sono i pesanti difetti di sceneggiatura. Quando i personaggi di un film sembrano tutti pazzi o cretini, questo è evidentemente un difetto di caratterizzazione (nota che tocca sempre alle donne e ai negri fare la figura peggiore). Inoltre, non mancano i buchi logici. Per dirne una: dovendo tenere lontana l'oscurità, com'è che - con una città vuota (e tante auto abbandonate) a disposizione - i personaggi non pensano mai a fare un bel falò? Non discendiamo mica dagli uomini delle caverne per nulla! Anche alcuni passaggi materiali dello svolgimento avrebbero beneficiato di una maggiore chiarezza, tanto più in una trama che non esclude le allucinazioni.
Brad Anderson (“L'uomo senza sonno”, “Session 9”) concretizza questa trama suggestiva ma imperfetta con una regia competente. Non privo di amabili citazioni, il film possiede indubbiamente un'atmosfera; alcune scene, come quella della chiesa, sono assai ben realizzate; e com'è bella la conclusione, coi due bambini sul cavallo che escono dal bordo inferiore dell'inquadratura in gru – prima che lo schermo sia invaso dal nero (no pun intended) dei titoli di coda.