lunedì 25 aprile 2011

Poetry

Lee Chang-dong

Mi-ja ha passato i sessanta, veste in modo un po' stravagante, pare spesso fra le nuvole. Vive con un nipote che è il classico cialtroncello adolescente (sua figlia gliel'ha sbolognato e sta in un'altra città); lavora per tirare avanti, e per esempio fa da badante a un vecchio sofferente da emiparesi da ictus - il quale, nonostante la paralisi, prende di nascosto il Viagra e cerca di scoparla. Ed ecco che in un momento la sua vita crolla: le viene diagnosticato l'Alzheimer; viene a sapere che il nipote partecipava con altri bulli della scuola a stupri di gruppo ripetuti su una ragazza di famiglia contadina, che si è suicidata buttandosi nel fiume; i genitori dei ragazzi, preoccupati solo di evitare lo scandalo e l'arresto dei figli, vogliono quotarsi per una somma (che Mi-ja non ha) di “risarcimento” alla famiglia della ragazza morta, che era cristiana e si chiamava Agnes.
In “Poetry” il maestro coreano Lee Chang-dong (anche sceneggiatore) ha la capacità di delineare la sua protagonista in forma dinamica e con piena credibilità psicologica; questo è uno dei fattori principali che danno la sua intensità al film, sorretto dalla splendida interpretazione dell'anziana attrice Yun Jung-hee, che ritorna dopo essersi ritirata dalle scene negli anni Novanta.
Improvvisamente Mi-ja si iscrive a una scuola popolare di poesia (sua madre, sentiamo, pensava che sarebbe diventata una scrittrice: singolo accenno che ci fa intravedere tutta una vita di rinuncia e sacrificio). L'Alzheimer non è un elemento centrale del film, quasi che la poesia ne fosse una terapia o una consolazione, come qualche critico ha voluto vedere; serve semplicemente a porre nella vita di Mi-ja il segno dell'“adesso o mai più”. Possiamo semmai vedere un'analogia fra questa “vigila dell'annullamento” di Mi-ja e la morte di Agnes – analogia che pone la base per l'identificazione fra le due, che esploderà nell'alto e straziante finale.
Parliamo dunque di poesia. Come insegna il corso (tenuto da un vero poeta coreano, Kim Yong-taek), la poesia richiede una dote sopra tutte: quella di guardare al mondo con occhi nuovi. Solo chi vede nelle cose nuove forme, nuovi significati, nuovi rapporti può essere un poeta (l'arte del suono e del ritmo viene dopo). “Saper vedere” è “saper sentire”. Non è facile! Le macchie di pioggia che si stampano, in dettaglio, sul taccuino bianco di Mi-ja rappresentano la difficoltà di lei a scrivere (oltre che per ovvia trasposizione la tristezza della sua situazione). Ma a poco a poco il suo sguardo si appropria delle cose con una nuova curiosità: specialmente di fiori e frutti (mentre nell'occhiata che getta sull'aula scolastica vuota dove avvenivano le violenze non c'è comprensione: solo l'amara curiosità di vedere il luogo del male).
Questa novità dello sguardo è una conquista della comprensione; vale come frase-simbolo l'osservazione dell'insegnante nel finale: “Non è difficile scrivere una poesia ma avere il cuore per scrivere una poesia”. Il film la rappresenta attraverso una “risonanza” visuale del dettaglio che depura le cose e ridona loro l'innocenza. Ma allora non è sbagliato dire che la scuola di poesia di “Poetry” è doppia: quella interna al racconto, rivolta a casalinghe e fruitori del tempo libero, e quella che coincide con il film stesso, e si rivolge allo spettatore.
Lo svolgimento drammatico di “Poetry” consiste di diversi fili che corrono verso il maestoso sviluppo finale: ciascuno come segmento di uno stesso discorso ma insieme marcando la propria autonomia. D'altro canto, in questo concorrere di linee narrative emergono due problemi, che rendono la prima parte del film inferiore alla seconda. Il primo è un certo sforzo iniziale: dopo la bellissima apertura sul fiume, l'organizzazione del racconto sembra a tratti un po' faticosa. Secondo difetto: uno di questi fili narrativi è la “cospirazione” dei genitori (e della scuola) per insabbiare lo scandalo, e qui la sceneggiatura pare addirittura meccanica. Pur con tutto il maschilismo tipico della società coreana, appaiono monodimensionali questi genitori che se ne fregano della ragazza suicida (solo un tocco di lip service, “Mi spiace per...”, da parte di quello che chiaramente è il più ricco e prepotente); non sarebbe stata inutile una sfumatura di maggior finezza psicologica, un accenno in uno o due di loro di quello stesso dramma che si svolge in forma compiuta nella protagonista. Il fatto è che, con tutta evidenza, questo per Lee Chang-dong è un passaggio obbligato da mettere in scena nel modo più rapido possibile: ciò che veramente gli interessa è la protagonista e il suo rapporto con la poesia.
Ma la seconda parte del film è splendida, e riporta il film alla potenza dei capolavori di Lee, “Peppermint Candy” e “Oasis” - mentre il più recente “Secret Sunshine” era, benché interessante, un po' deludente (mi spiace di non conoscere il suo film d'esordio “Green Fish”). Tutti i fili narrativi convergono in una progressione che si potrebbe definire spietata. Tutto quello che compariva quasi casualmente nella prima parte raggiunge un senso - come il momento in cui Mi-ja cede al desiderio del vecchio paralizzato (col che Lee Chang-dong ha modo di ritornare a un tema molto sentito nel suo cinema, che è la sessualità degli handicappati). Le scene “precipitano”, una dopo l'altra, verso la conclusione con una forza di convinzione, una nettezza di esecuzione, un'autenticità, in una parola un valore (cito solo quella stupenda dell'arresto del ragazzo) che si può definire solo ammirevole.
La soluzione drammatica arriva a una sconvolgente fusione fra narrativa e lirica. Alla sessione finale del corso di poesia viene depositato un solo componimento, il primo e ultimo dell'assente Mi-ja: si intitola “La canzone di Agnes”. E' l'addio in prima persona di Agnes prima di annegarsi, “prima di attraversare il fiume nero”, ed è l'addio di Mi-ja; mentre la poesia scorre in voce over, parlando del sogno di rinascere e reincontrare la madre, assistiamo all'ultimo viaggio di Agnes e di Mi-ja verso il fiume – il fiume che rappresenta la fine e l'inizio, lo scorrere inesauribile delle cose (per questo il film si apre e si chiude circolarmente sui suoi flutti). La comprensione ha dato voce a un idem sentire che congiunge la vecchia e la ragazza in una commossa identificazione. Questa comprensione universale è l'essenza della poesia secondo la lezione di Lee Chang-dong.

sabato 23 aprile 2011

Habemus Papam

Nanni Moretti

“Habemus Papam”, il film più bello di Nanni Moretti fin da “La stanza del figlio”, affronta il tema dell'impotenza nella particolare declinazione morettiana: l'impotenza a esprimersi: l'afasia.
Infatti la figura dell'afasia attraversa tutto il cinema morettiano. Dall'incapacità a esprimere i propri sentimenti che trasforma Moretti in lupo mannaro in “Sogni d'oro” all'impossibilità di trasmissione del discorso della fede ne “La messa è finita”; dalla ripulsione per il discorso falso fatto di parole di plastica (l'indimenticabile protesta per le domande della giornalista) in “Palombella rossa” alla difficoltà della creazione artistica che è il grande tema di “Aprile”.
Questa è la ragione per cui in Moretti è così frequente la figura dello psicoanalista. La psicoanalisi non è forse il tentativo di spezzare il silenzio dell'Es, o meglio, il suo esprimersi insensato e distorto? “Dove c'era l'Es ci sarà l'Io”. Il lutto del padre psicoanalista, ne "La stanza del figlio", interrompe la comunicazione.
Ora, per il non credente Moretti, qual è la caratteristica principale di un Papa? E' un comunicatore. La bocca della verità per un miliardo di uomini. Quando il Papa riluttante appena eletto (un gigantesco Michel Piccoli) viaggia sconosciuto in metrò, parlando da solo come un matto, dice: “Sto cercando le parole per un discorso che devo fare davanti a tante persone. Sono un po' preoccupato”. Parlando con la psicoanalista Margherita Buy, collega ed ex moglie di Moretti, alla domanda che mestiere faccia, risponde: “Che cosa faccio? Faccio l'attore”. L'attore, cioè l'incarnazione massima della comunicazione – colui che appare in scena e parla direttamente al cuore di una platea di sconosciuti. E' proprio questa incapacità che lo schiaccia – di qui il “gran rifiuto”, l'angoscia, il blocco, le sue urla inarticolate che risuonano durante l'annuncio “Habemus Papam” al balcone di Piazza San Pietro. L'inarticolato è il modo dell'afasia.
E' degno di nota peraltro che durante la sequenza del Conclave tutti i cardinali, in tutte le lingue, pensino la stessa cosa: “Non io, Signore, non io”. Non è una nevrosi singolare di Michel Piccoli ma un terrore collettivo.
Questa invenzione - di un Papa che entra in crisi all'atto dell'elezione, onde bisogna chiamare uno psicoanalista - dà luogo com'è ovvio a magnifici momenti di commedia. Commedia nera, alla Ferreri, quando quelle urla irrompono durante l'annuncio del cardinal protodiacono al balcone (nella scena, per inciso, Moretti si dimentica il crocifero, che invece appare nella seconda comparsa al balcone nel finale). Notevole qui un'inquadratura di suore e fedeli sconvolti, poiché ha una particolare sincerità. Moretti potrà anche rivendicare in modo un po' nietzschiano la “terribile bellezza” del darwinismo, quando parla col cardinale, ma la bellezza non meno terribile della fede e della confidente attesa non lo lascia indifferente.
Tutti gli sviluppi di una situazione così ricca sono gestiti splendidamente, con una logica degna della commedia classica americana. Viene subito chiamato il famoso psicoanalista Vezzi (Moretti). Deliziosi i dettagli sulle difficoltà procedurali quando si psicoanalizza un Papa, deliziose le gaffes di Moretti (il suo dar la mano al Papa quando lo incontra, il suo “Vede, Papa, con tutta questa gente intorno...”). Quando poi Michel Piccoli diventa uccel di bosco per le vie di Roma, il film si divide in due linee parallele, ed è vero che, come molti già hanno osservato, esse non sono troppo ben coordinate - ma sono entrambe così amabili!
La prima vede Moretti e i cardinali ancora in Vaticano, convinti che il Papa sia sempre chiuso nei suoi appartamenti. Qui esplode la magnifica comedy dei cardinali, che Moretti trasforma in un personaggio collettivo, ed è l'invenzione più pirotecnica del film. Si direbbe che Moretti sia affascinato da questo corpo di principi della Chiesa, che descrive con uno sguardo di calda simpatia (mentre riserva la parodia aspra ai giornalisti). Anche prima di comparire lui in scena, li concretizza con invenzioni assolutamente chapliniane: vedi come, nel voto al Conclave, la scena ponga un geniale parallelismo con i bambini a scuola durante un compito in classe. Tutte le osservazioni sul gruppo cardinalizio, sulle sue dinamiche, sul loro modo di “sgelarsi” sotto l'influsso dello psicoanalista, fino alla gigantesca sequenza del campionato di pallavolo, hanno una felicità inventiva stupefacente.
La seconda linea narrativa del film è dedicata al vagabondaggio del Papa. Qui vi sono varie avventure (anche un accenno di riflessione sulla fede, quando ascolta una predica in chiesa – ma sotto quest'aspetto tutta la pars construens del film, appena accennata, è un po' debolina), che culminano nel capitolo sul teatro dove, tramite Cechov, vengono allo scoperto non solo il particolare delle aspirazioni giovanili frustrate del personaggio ma il generale del discorso sul teatro sotteso al film. Di qui la conclusione – dove è perfetta l'entrata solenne del “Miserere” di Arvo Pärt sulla svolta drammatica della (non sorprendente) sorpresa finale.
Questo anche per dire che “Habemus Papam” si caratterizza per un'estrema bellezza formale. Raramente Moretti, i cui esordi cinematografici erano all'insegna di una semplicità formale che sfiorava il disinteresse, ha realizzato un film così rifinito in termini di inquadratura e di montaggio (c'è anche un raffinato esempio di montaggio temporale non consecutivo, raro per l'autore, riguardo al colloquio del Papa con Margherita Buy). Per questo, per la sua compattezza, per la sua umanità, il film è da salutare come un passo avanti di prima importanza nel percorso del cinema morettiano.